Emma Baeri, Riguardarsi

Può apparire spudorato, inopportuno quindi, aprire una riflessione sulla storia del Movimento femminista italiano attraverso i suoi manifesti parlando di un’amicizia femminile; eppure, tra le due cose c’è un nesso, tanto casuale quanto voluto e necessario.

Si era già agli inizi degli anni Ottanta, anni di transizione nella nostra storia. Già erano nati molti Centri di documentazione, di studio, alcune librerie, i primi nuclei di archivi; già avevamo alle spalle dieci anni e più di presa di coscienza, come si diceva allora, e di lotte; già si parlava e scriveva di storia delle donne. Annarita Buttafuoco aveva fatto molte di queste cose; io, che fino a quel momento avevo tenuto separati illuminismo e femminismo, ero solo agli inizi di una mia riflessione tra politica e storia. Lei era stata invitata dall’Udi di Palermo per una conferenza sull’emancipazionismo italiano; io avevo in mente una ricerca sull’emancipazionismo catanese, che non ho ancora fatto. Andai a Palermo per capire e sapere.

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Riguardarsi
Mi fu chiesto di recarmi a prelevare Annarita in albergo. Non ricordo molte cose di quell’incontro. Ricordo solo che decisi di condividere con lei le mie abitudini palermitane: una carrozza un po’ sconnessa, un cavallo bruno sotto gli alberi del viale della Libertà, un ristorante vicino a piazza Politeama – pasta con le sarde, squisita – e un fitto parlare delle nostre vite. Da allora, molte parole e gesti, alcune cose importanti condivise: un’amicizia tessuta a trame larghe, la nostra libertà, e a trame fitte, un credito sempre aperto, a prudente distanza e ad affettuosa prossimità, convinte noi reciprocamente di voler spendere in questo nostro legame quanto di meglio abbiamo di noi stesse. Tutto ciò ha a che vedere con questa mostra, poiché l’incontro di due donne al crocevia del proprio desiderio di esistenza è nato (o è emerso) proprio in quegli anni Settanta nei quali questo desiderio si fece progetto politico rivoluzionario, non solo per noi.

Per questo, e per tutto quello che la mostra racconta, è valsa la fatica, e il piacere, di conservare, ordinare, mostrare un primo consistente nucleo di manifesti del Movimento femminista e del movimento politico delle donne in Italia. Abbiamo così voluto fornire materiali e proposte per un lavoro storiografico e per la lettura politica di una vicenda che solo da pochi anni costituisce oggetto di indagine utile a comprendere tutta la storia italiana degli ultimi trent’anni.

Il Movimento femminista, in particolare, affidò soprattutto al gesto e alla parola il proprio senso e non si pose il problema della trasmissione né politica né storica del suo patrimonio, nella baldanzosa certezza di essere la politica, di essere la storia. Volantini e manifesti, spesso senza data né luogo né firma, sono documenti consueti prodotti negli anni Settanta, fragili, effimeri, il cui reperimento è dovuto alla passione documentaria tenace di alcune, o al caso: è fortuna rinvenirne copia, e ogni copia ha un valore inestimabile. Sarebbe certo ancora più importante ritrovare e mettere insieme un altro tipo di fonti iconografiche, le centinaia e centinaia di cartelli e striscioni che coloravano e raccontavano le ragioni delle manifestazioni di piazza, luogo privilegiato dell’autorappresentazione del corpo politico delle donne in movimento in quegli anni, parole di carta e di stoffa, immediate, fonti orali inconsuete: occorrerà “ascoltarle” nelle cantine e nei garages dove certamente si nascondono.

Corpo politico femminile, quindi, che immediatamente dice di una sua autonoma sessualità, sessualità come “diritto al piacere”, nell’accezione datane da Michi Staderini, cioè desiderio, salute, politica, relazioni, un diritto imprevisto nella fondazione originaria della parola polis, se non come confine certo, e invalicabile, posto a difesa della società degli uomini versus le donne, comunità barbara.

In quasi trent’anni questo corpo politico ha parlato, proponendo immagini di sé impreviste, atte a comporre un’identità pensata “a partire da sé” per costruire una società di donne e uomini.

C’è continuità tra queste rappresentazioni, in questo progetto? Ci sono cesure, spostamenti, nodi?

Riguardarsi, quindi, è necessario.

Guardarsi di nuovo allo specchio delle immagini per rintracciare le tappe di questo percorso, per porre qualche domanda, per avere qualche risposta. Che cosa ci ha vieppiù appassionato negli anni al punto da voler noi produrre un’immagine che andasse oltre l’evento? Forse rendere visibile a noi stesse la rivoluzione avvenuta, radicandola non più solo nelle parole, convinte noi che la carta, stampata, colorata, moltiplicata, potesse trattenere l’impronta del nostro corpo politico, ben oltre il flatus vocis delle origini. Forse anche la passione di quel sé, della memoria di un Movimento un po’ smemorato delle sue origini, e della “giovinezza” di una generazione politica che ha osato ripensare il tempo della propria vita assieme a quello della storia collettiva, restituendo alle esistenze individuali un senso nuovo del legame sociale.

Riguardarsi per essere guardate, per trasmettere metodo e contenuti di un’esperienza politica che ha mutato radicalmente le rappresentazioni del femminile, i percorsi di identità, le relazioni tra i sessi, per costruire infine una tradizione riconoscibile dalle giovani, dai giovani. I manifesti presentati in questa mostra, pur nella fortunata casualità o nella testarda ricerca di chi li ha raccolti presso la Fondazione Elvira Badaracco, costituiscono un campione sufficientemente rappresentativo della produzione del Movimento, sia dal punto di vista quantitativo che da quello tematico e geografico. Pochi negli anni Settanta, e rari, essi subiscono una vorticosa impennata negli anni Ottanta. Anche la dimensione, varia nel primo decennio, tende a stabilizzarsi in grande formato (cm. 100×70) negli anni successivi; analogamente, la grafica elementare e diretta degli anni “storici” si fa raffinata e pensata man mano che il messaggio esce dal tono provocatorio e conflittuale per proporre punti di vista e temi di riflessione vieppiù centrati sull’affermazione della differenza sessuale, delle sue pratiche politiche, delle sue forme di intervento, man mano che il Movimento si apre alle altre donne.

 

Ieri, la separatezza degli spazi di riflessione, i collettivi, ridisegnava lo spazio dell’esperienza femminile, non più “naturalmente” privato, né pubblico “emancipato”. La scelta della separatezza infatti, nell’introdurre una forma artificiale, simulata, nella normalità quotidiana delle donne e degli uomini, consentiva la sperimentazione di una soggettività femminile impensata in un vero e proprio laboratorio, il collettivo di autocoscienza. Qui, nel confronto speculare e circolare con le donne del gruppo, ciascuna riguardava la propria storia individuale, la analizzava, la capiva, l’accettava, la faceva propria “a partire da sé”. Qui fu infatti l’avverbio pleonastico del luogo, nel quale il tempo continuo della storia del mondo si frammentava all’impatto con ogni singola biografia; oggi fu l’avverbio di quel tempo nuovo, nostro, una voluta ma anche spontanea presentizzazione del passato e del futuro in quell’incandescente tempo della politica: qui e oggi, un cortocircuito spaziotemporale che riassunse il percorso di quella nostra utopia.

Più tardi, pur mantenendo la separatezza del luogo, molti collettivi sperimentarono la pratica dell’inconscio, nata dall’incontro critico e fecondo tra femminismo e psicanalisi. Più tardi ancora, la “pratica del fare” aprì gli spazi separati alle altre, non ancora agli altri. Siamo nella seconda metà degli anni Settanta, e molte cose saranno fatte dal movimento in quel tempo in cui la separatezza diventa separatismo, strumento di quel fare, più che pratica in sé sufficiente a dare conto della differenza. La relazione tra donne, che fino a quel momento era stata agita nei luoghi separati, tende a spostarsi nella società “esterna”, a mescolarsi ai luoghi misti, cercando di spendere in essi la nuova moneta coniata. La forza di questo passaggio, tuttavia, risiede ancora nella consuetudine, ormai irrinunciabile, di una sorta di separatismo metodologico che precede sempre le scelte e gli interventi delle donne nei luoghi delle relazioni miste. Queste le pratiche e le forme. Perché quindi raccontare la storia che le ha inventate? Cosa ci muove oggi a riannodare il filo della memoria di questi anni?

Molte di noi pensano che noi stesse, che pure lo abbiamo vissuto, abbiamo di quel tempo una inquieta smemoratezza, quasi che la scoperta della sessualità femminile, la sua pesantezza rimossa nella storia degli uomini, si fosse tradotta in pesantezza della nostra esperienza e del suo senso, al punto da preferirne l’oblio, ancora una volta, apparentemente accontentandoci di quello che abbiamo saputo di noi: una libertà femminile smemorata delle sue radici corporee è il nuovo rischio.

Occorre invece riprendere in mano il nodo politico degli anni Settanta, scioglierlo politicamente e storicamente, rintracciarne i fili conduttori nei decenni successivi per capire ciò di oggi godiamo, ciò di cui ancora soffriamo.

Riguardarsi, infine, vuol servire a questo. Si può infatti partire anche da queste fonti di carta colorata per mettere in fila alcune parole chiave della pratica di quegli anni, vedere quali messaggi suggeriscono per l’interpretazione di quegli eventi, la cui difficile trasmissibilità è un problema aperto.

Oralità, scrittura, gestualità, rappresentazione: il recupero dell’oralità può certamente essere affidato al racconto delle protagoniste, ma occorre raccoglierlo in una relazione tra donne nel presente che ricontestualizzi in qualche modo la relazione politica del passato. Ciò significa che non è possibile scrivere una storia oggettiva del Movimento femminista eludendo la sostanza e il metodo della pratica di quegli anni: la nascita della soggettività femminile come nuova misura della ricerca, politica o storica che sia.

Più difficile sembra riprendere in mano gli scritti del Movimento, quasi sempre densi, frammentari, irritanti, farne fonte storica, senza ritessere attorno ad essi quel contesto politico di riferimento che parlava e scriveva femminese e sinistrese. C’è il rischio di buttare alle ortiche materiali troppo presto classificati come “ideologici”, mancando il confine mobile che in quegli anni correva tra ideologia e utopia, le parole dell’una e dell’altra essendo spesso contigue e sorelle.

Quanto alla gestualità, occorrerà fare una puntuale ricognizione delle fonti fotografiche e filmiche, cercando tutti i video amatoriali, per leggere nei movimenti di quel Movimento i modi della riappropriazione del corpo da parte delle femministe. La spudoratezza del gesto, l’ostentazione di un sesso negato e clandestino, è il fatto più vistoso di una ricerca espressiva che partendo dai girotondi in piazza approda ad una passione per il cinema e il teatro tutta nuova, di cui molti manifesti della mostra danno conto. La rappresentazione, infine, i manifesti. L’importanza di questi nasce non solo dalla loro diretta fruibilità – le immagini di un Movimento – quanto dalla peculiarità di quelle immagini di quel Movimento, ovvero del rapporto tra pratica politica e sua rappresentazione scelto dal Movimento soprattutto negli anni Settanta, quando i modelli ereditati del femminile si sciolgono al sole dell’autocoscienza e la necessità di autorappresentazione “a partire da sé” diventa occasione insostituibile di individuazione e identificazione. Non a caso, infatti, alcuni manifesti di questo primo decennio sono molto scritti, enfatici, altri vistosamente “orali”, gridati, altri discorsivi. Fonti complesse, quindi, e di confine, preziose sia in riferimento all’oralità effimera che alla scrittura criptica del Movimento di quegli anni; fonti che sollecitano uno sguardo incrociato, mobile: guardare dentro attraverso una finestra su quel tempo, il manifesto, che pure si mostra a noi fuori da quel tempo, una passione voyeuristica che è del mestiere storiografico tanto quanto lo è di noi, tra noi, ieri e oggi.

La lettura diacronica di queste fonti ci dice del Movimento, nel senso stretto di qualcosa che muovendosi muta, più di quanto ciascun manifesto non suggerisca. Non a caso infatti si è preferito ordinare il materiale della mostra secondo criteri che hanno introdotto nella continuità del tempo una periodizzazione legata alle tappe politiche del Movimento, sì da poter anche registrare sincronie tematiche significative. Per esempio, mentre i temi relativi al corpo (aborto, sessualità, contraccezione, maternità, violenza) sono un continuum degli anni Settanta, essi incrociano a partire dagli anni Ottanta pacifismo, scienza filosofia, libertà, cittadinanza, subendo all’impatto con queste nuove frontiere una modificazione talmente radicale da essere poi indecifrabili negli anni Novanta, fin quasi a scomparire: un corpo diluito nei saperi, un nuovo rischio di insignificanza.

Tuttavia, l’intreccio tematico che continuamente si ripropone, parla di un mutamento che non avviene attraverso il tempo, come progresso o emancipazione, bensì nel tempo veloce della coscienza di sé che la relazione con le altre attiva, un movimento che prima o poi rincontra il tempo della storia, col quale entra in inevitabile attrito; in quegli anni si diceva dell’irrinunciabile nesso tra emancipazione e liberazione, una dualità segnalata dall’ostinata presenza in tutta la vicenda femminista dell’intreccio tra materno e lavoro: ma questa è la storia delle donne.

La storia scritta da questi manifesti è ovviamente una storia monca, e non solo per la quantità dei materiali raccolti. Molti dei gruppi attivi negli anni Settanta (penso ad esempio al mio collettivo di Catania, “Differenza donna”) non hanno lasciato immagini della propria esistenza, della quale si può ricostruire traccia solo attraverso testimonianze orali, se raccolte, se reperibili. C’è da dire tuttavia che nella prima metà degli anni Settanta, gran parte del Movimento elabora le proprie pratiche nella separatezza dei collettivi, quasi indifferente ad una visibilità esterna; ma ciò non è vero per tutti, basta pensare al Movimento Femminista Romano subito in piazza dai primi anni Settanta. A questa relativa indifferenza all’autorappresentazione dell’immagine si sottraggono, forse non a caso, alcuni gruppi di donne nati da scissioni rispetto a formazioni miste. Penso a Lotta Femminista, che sembra quasi voler marcare la rottura teorica con le sue radici marxiste sulla questione del salario producendo gradi manifesti con grandi scritte; penso al Movimento di Liberazione della Donna, i cui manifesti sembrano voler affermare la progressiva autonomia delle militanti dal movimento radicale.

Prima di tracciare lo schema di periodizzazione adottato per definire i confini della storia raccontata dalla mostra, e alcune sue vicende salienti, occorre fare menzione di una disfunzione del senso del tempo registrata da molti manifesti. Nell’arco del trentennio considerato, proprio fino ai nostri giorni e anche da parte di gruppi o associazioni che hanno a cuore la cura della storia, si registra il fenomeno del “senza data”. Dedicare una sezione della mostra a questa peculiare tendenza diacronica è sembrato opportuno, proprio anche in riferimento a quanto detto a proposito di “tempo e femminismo”. Sembra quasi che l’omissione della data coincida con un bisogno di liberazione dalla stretta scansione dei doveri che la divisione sessuale del lavoro impone ancora oggi alle donne. I ruoli sessuali, interiorizzati più di quanto la consapevolezza della loro innaturalità non riesca a far rifiutare, si azzerano in un tempo senza data, un tempo finalmente per sé.

Ciò detto, la storia che questi manifesti invitano a ricostruire, può verosimilmente essere scandita da alcune date, che aggiustano il calendario degli anni alle tappe e alle svolte del Movimento femminista.

1970-78. Dalla nascita dei gruppi alla legge 194.

L’inizio del Movimento, ad eccezione del gruppo DEMAU (Demistificazione Autoritarismo) che nasce a Milano nel 1965, coincide con la crisi “di genere” del movimento studentesco, nel quale l’alleanza tra giovani donne e uomini contro l’autoritarismo del modello scolastico e familiare si sfalda alla luce delle contraddizioni di sesso.

Nel biennio 1970-71 nascono infatti molti dei gruppi femministi storici, dai quali prenderà le mosse la fitta rete di collettivi che rapidamente si estenderà su tutto il territorio nazionale.

Tra luglio e settembre del 1970, tra Roma e Milano, nasce Rivolta femminile, che pubblica immediatamente il suo Manifesto. Attorno alla figura di Carla Lonzi, forse la mente più geniale del femminismo italiano, si aggrega un gruppo che pone al centro l’autocoscienza, pratica dell’autenticità femminile, che rompe con la cultura patriarcale inaugurando un radicale movimento di deculturizzazione fondato sulla messa a fuoco di una sessualità autonoma delle donne. Al primo manifesto seguirà la pubblicazione di molti scritti, tutti pubblicati dalla casa editrice omonima del gruppo, che continuerà a curarne in esclusiva la circolazione fino ai nostri giorni. Sputiamo su Hegel (1970), La donna clitoridea e la donna vaginale (1971), Sessualità femminile e aborto (1974) comporranno assieme ad altri scritti un corpus teorico e politico col quale si confronterà il Movimento per tutto il tempo in cui i temi della sessualità femminile saranno al centro del dibattito politico. Nel 1977, con la pubblicazione del secondo Manifesto, Io dico io (8), Rivolta prende le distanze dal mito dell’autocoscienza denunciandone l’uso equivoco fattone da alcune donne emancipate che ripropongono invece vecchi modelli politici: è esplosa la contraddizione donna/donna, aperta dalla questione aborto e dalle diverse soluzioni per essa previste all’interno del movimento politico delle donne, femministe e non.

Sempre nel 1970 nasce a Milano il gruppo Anabasi, che si fa portavoce delle esperienze del femminismo americano. Anabasi pubblica nel 1972 un primo testo Donne è bello, che mutua l’orgoglio di questa asserzione dal movimento dei neri d’America. La raccolta di scritti d’oltreoceano accoglie anche due testimonianze del femminismo italiano, il Manifesto di Rivolta e un documento del gruppo Il Cerchio Spezzato di Trento, Non c’è rivoluzione senza liberazione della donna. Il manifesto senza data Donna è bellum, nasce da queste contaminazioni semantiche e politiche. Stampato a Padova, a cura del collettivo Zizzania, esso risolve nell’asserzione battagliera del titolo la mobilitazione per la libertà d’aborto, quasi una guerra civile: siamo certamente a metà degli anni Settanta.

E’ pure questo il clima politico nei quali i Gruppi per il salario al lavoro domestico, nati attorno all’esperienza di Lotta Femminista, si moltiplicano a vista d’occhio.

Lotta Femminista nasce tra Padova e Ferrara nel 1971, da donne provenienti per lo più dalle fila di Potere Operaio e del Movimento Studentesco. Immediatamente il gruppo si moltiplica in molte città, seguendo un po’ la diaspora dei gruppi extraparlamentari verso gli insediamenti industriali: un collettivo di Lotta Femminista nasce anche a Gela, in relazione all’insediamento dell’ANIC in quel territorio. Punto di partenza della riflessione del gruppo è l’individuazione di due aree di oppressione femminile, la fabbrica e la casa. La rivendicazione della produttività del lavoro domestico approda via via all’individuazione di tutte le questioni correlate: controllo sui tempi di vita e di lavoro, potere dei soldi, salute, autodeterminazione della maternità, tutti fatti che sostengono la necessità di un salario al lavoro domestico da pagarsi da parte dello Stato, quale strumento di accesso delle donne ad una cittadinanza compiuta. I manifesti di Lotta Femminista che la mostra espone, dicono vistosamente tutti della “grandezza” e urgenza di questo obiettivo.

La storia dell’MLD (Movimento di Liberazione della Donna) come per altri versi ed in altri tempi quella dell’Udi (Unione Donne Italiane) è una storia che procede autonomamente dentro il Movimento Femminista. Nato nel 1970 da una riflessione maturata all’interno di alcune conferenze del Movimento Radicale, l’MLD procede velocemente verso un rapporto di federazione col partito padre, e nella contestuale affermazione della propria autonomia; questo percorso che si concluderà nel 1979 a Catania, nel corso del V Congresso Nazionale MLD.

La formazione radicale sarà, agli inizi soprattutto, l’elemento di differenziazione delle scelte di questo gruppo rispetto a quelle fatte dai collettivi femministi. Aborto, violenza, lavoro, salute, pornografia, i temi che in quegli anni identificavano la cosiddetta “questione femminile”, vengono ricondotti dall’MLD nell’alveo dei diritti civili negati, la cui affermazione sollecita, per l’appunto, gesti di disobbedienza civile. Infatti, subito dopo la sua costituzione, l’MLD propone di raccogliere firme per presentare una legge d’iniziativa popolare che abolisca il reato di aborto. Il punto di partenza è la constatazione che in Italia, su tremila aborti clandestini praticati ogni anno, solo 200 vengono individuati e perseguiti. Ciò significa che un comportamento femminile ricorrente (e secolare) nel momento stesso in cui avviene a dispetto di ogni legge, pone le donne di fatto fuori legge, indipendentemente dal perseguimento dell’azione abortiva, significa in definitiva che le donne soffrono di un difetto di cittadinanza proprio a causa di un diritto civile negato, diritto alla salute e alla autodeterminazione. Pertanto, riconoscere il diritto di aborto significa reintegrare le donne nella legalità, nella cittadinanza. Siamo nel 1971, e Carla Lonzi, rifiutando per sé e per il suo gruppo di apporre la firma sotto la proposta dell’MLD, dichiara decaduta di fatto la norma antiabortista. Arrivando nel consueto modo folgorante al nocciolo della questione, Lonzi riassume nella domanda che ogni donna dovrebbe porsi, “per il piacere di chi sto abortendo?”, il nesso inscindibile tra maternità e sessualità femminile dentro il modello obbligato per “natura” dell’eterosessualità: il dibattito è aperto.

La questione dell’aborto si impone nella prima metà degli anni Settanta con la forza di un’urgenza millenaria. Il Movimento si divide e si confronta. Tra le molte posizioni, due soprattutto si misurano nel rischio quotidiano di aiutare le donne ad abortire, un fare comune in apparenza, che sottende profonde diversità.

Il CISA (Centro Italiano Sterilizzazione e Aborto) nasce a Milano nel 1973. Esso raccoglie il frutto delle riflessioni maturate nell’area radicalfemminista ed elabora uno strumento duttile e combattivo che propone l’uscita dalla clandestinità attraverso gesti vistosi di disobbedienza civile. Ai molti aborti clandestini si risponde con molti aborti alla luce del sole; autogestione, prezzi politici, cliniche private saranno i modi e i luoghi dell’impegno del CISA. A questo punto molti gruppi avviano una pratica diversa. Dai Centri per la Salute della Donna sparsi un po’ dovunque in Italia, nasce un movimento che parte dalla costituzione del CRAC (Coordinamento Romano Aborto Contraccezione, 1975) nel quale confluiscono donne provenienti da Avanguardia Operaia, PDUP, Lotta Continua e da vari Collettivi femministi. E’ proprio la cultura femminista dei Collettivi a imprimere al CRAC uno stile politico fondato sulla qualità dell’intervento abortivo; sarà un’autogestione in cui avrà spazio il self-help (autovisita), l’autocoscienza prima e dopo l’intervento, la gratuità e la scelta delle case private attrezzate per la circostanza. Due modi diversi di procedere, come è chiaro, in cui quantità o qualità, rappresentanza degli interessi di tutte le donne o pratica di relazione tra alcune, tempi dell’urgenza sociale o tempi politici femminili stringeranno la questione aborto dentro la morsa di una impossibilità vieppiù visibile. Nella partita ferma tra queste posizioni, che rendono giustificabile nel senso comune lo scontro parlamentare sul corpo femminile, decisiva sarà la maturazione della proposta dell’Udi, la sua inarrestabile corsa verso l’autonomia dai partiti della Sinistra storica, il suo altrettanto inarrestabile avvicinamento ai contenuti e al metodo femministi. E certamente fondamentale fu il peso dell’Udi nella scelta dello strumento legislativo, col quale si intendeva coronare il lungo impegno profuso da questa associazione a difesa della donna lavoratrice, dal dopoguerra in poi.

Quando nel maggio del 1978 la legge 194 sarà approvata, sancendo soprattutto un diritto inaudito fino a quel momento, l’autodeterminazione della donna, i Collettivi, l’Udi, l MLD avevano compiuto un importante percorso politico, dalla diversità delle storie e delle pratiche verso un obiettivo comune, realisticamente posto e raggiunto. Alcuni manifesti dicono quanto fu difficile e importante questo percorso.

A partire dalla seconda metà del decennio, il Movimento è consapevole di aver accumulato un’enorme ricchezza di pratica e di pensiero da custodire e da spendere. La differenza/inferiorità è scomparsa dal senso comune lasciando spazio a una differenza/valore da non disperdere. La sola testata storica del Movimento “Effe” (1973) continua a uscire, seppur saltuariamente, ma non è più sufficiente a dare conto di un movimento che comincia a sostituire la sostanziale a-storicità dei primi anni con una passione estesa di conoscenza delle proprie origini nel tempo. La rivista di studi “Dwf. Donna Woman Femme” nasce da questa esigenza nell’ottobre del 1975, attenta al dibattito femminista internazionale e alle intersecazioni disciplinari sollecitate dal punto di vista femminile sulla conoscenza. “DWF” apre un Centro Studi nel 1978, inaugurando una formula destinata a moltiplicarsi nel decennio successivo. Ancora nel 1978 nasce “Quotidiano donna”, come supplemento al “Quotidiano dei Lavoratori” prima, successivamente come settimanale autonomo, seppure irregolarmente in edicola.

Nel quadro romano dei periodici menzione a parte merita “Differenze”, testata del Movimento Femminista Romano curato a ruota, a partire dal 1976, dai collettivi storici della città.

A Milano, dal 1973, esce “Sottosopra”, che raccoglie le voci del femminismo milanese, ma è aperto anche all’esperienza di altri gruppi.. Alcuni dei fascicoli più importanti sono collegati ad eventi significativi del Movimento, come i convegni di Pinarella di Cervia o il Seminario al Circolo De Amicis di Milano su sessualità, maternità, contraccezione, aborto. Ancora a Milano, in via Dogana, un gruppo di donne dello storico Collettivo di via Cherubini apre nel 1975 una Libreria delle Donne, che vende solo libri di donne continuando a riflettere sulla differenza. Il manifesto che ne pubblicizza l’apertura riassume alcuni elementi tipici della sensibilità politica di quegli anni: l’immagine di un gruppo di donne di generazioni diverse e un testo lungo, discorsivo, che invita alla fruizione informale, amichevole, di un luogo tradizionalmente culturale e commerciale, una libreria, che si apre e apre alle “altre” uno spazio politico esclusivo. Fu questa una delle soluzioni date dal Movimento all’annosa questione del rapporto con le altre donne: consultori, bar, ristoranti, Centri di documentazione e studio, sono di volta in volta i luoghi in cui, in spazi apparentemente ordinari, il Movimento sperimenta la responsabilità, la delega, il servizio, gli obiettivi politici.

E’ proprio l’esigenza di coinvolgere nell’esperienza femminista quante più donne possibile a indurre alcune donne impegnate nell’insegnamento a riempire di contenuti di genere i corsi delle 150 per le lavoratrici. Questa esperienza, richiamando temi come sessualità, salute, famiglia dentro una nuova forma di trasmissione tra adulte, diventerà un laboratorio didattico prezioso per iniziative analoghe negli anni successivi. A queste esperienze si riferiscono alcuni manifesti veneti e il manifesto della Cooperativa “Gervasia Broxon” di Affori.

Tutto questo lavoro è preceduto e accompagnato dalla nascita del cosiddetto “femminismo sindacale”, che trova voce nei Coordinamenti Donne, e soprattutto nell’Intercategoriale, un’esperienza originale che innovando la prassi sindacale alla luce della pratica femminista approderà all’importante convegno torinese Produrre e riprodurre nell’aprile del 1983.

1980-1985 Dalla questione “violenza sessuale” alla nascita dei Centri Donna. Il Movimento tra filosofia e storia. Il pacifismo femminista. Il lesbofemminismo.

Nel 1981 la questione dell’aborto sembrava definitivamente chiusa con i due No che bocciavano i referendum abrogativi della legge 194 proposti dal Movimento per la vita e dal Partito Radicale. In molte città italiane, specie là dove erano stati attivi i Coordinamenti per l’Autodeterminazione sorti a difesa della legge, si apre una stagione di lotte articolate, che rilanciano la “questione femminile” alle responsabilità delle amministrazioni locali per chiedere l’applicazione della legge in un quadro più ampio di richieste: salute, informazione, servizi, spazi, una richiesta, quest’ultima, che nel tempo tenderà a sganciarsi dalle altre, fino a diventare il terreno privilegiato del rapporto tra donne e istituzioni negli anni Ottanta.

Contemporaneamente, dai Centri antiviolenza aperti un po’ dovunque dai Collettivi e dall’MLD arriva la spinta a porre sull’agenda del Movimento la questione della violenza sessuale. Anche qui, un comportamento maschile millenario diventa improvvisamente intollerabile alla coscienza mutata delle donne, nell’indignazione generale per il delitto del Circeo, nel 1975. L’occupazione del palazzo del Governo Vecchio a Roma da parte dell’MLD nel 1977, primo grande visibile centro antiviolenza, e l’assalto fascista a Radio Donna nel 1979, danno la spinta decisiva alla costituzione di un comitato promotore di una legge contro la violenza sessuale. MLD, Udi, Movimento Femminista Romano, donne FLM, Radio Lilith, “Effe”, “Noi donne”, “Quotidiano donna”, sono i soggetti promotori che nel giro di pochi mesi raccolgono attraverso centinaia di comitati periferici oltre 300.000 firme, presentate al Parlamento nel marzo del 1980.

I termini di quella proposta sono noti, in parte recepiti, in parte modificati dalla legge oggi in vigore. Resta aperto il dibattito sull’uso delle leggi in riferimento al corpo e alla sessualità, sul dilemma tra garantismo e giustizialismo che nessuna legge sembra saper sciogliere quando destinatarie sono le donne e sull’impossibilità di rendere loro piena giustizia in un ordine giuridico e simbolico che lascia incompiuta la cittadinanza femminile. Resta, a difesa di questa lunga stagione delle leggi “femministe”, l’apertura di grandi spazi di dibattito politico su tutto il territorio nazionale che ha certamente accelerato e diffuso i processi di consapevolezza dei propri diritti in tutte le donne.

Gli anni Ottanta sono attraversati sin dall’inizio dalla nascita dei Centri Donna, centri di documentazione, produzione culturale e relazione politica. Dall’idea iniziale di una Casa, per le donne prima, delle donne poi, nasce un fervore di iniziative un po’ ovunque. Roma, Milano, Bologna, Bolzano, Siena, Venezia e anche Torino, Verona, Foggia, Ferrara, Napoli, in qualche caso con l’appoggio delle giunte comunali (Bologna, Venezia, Napoli) che forniscono spazi, personale, denaro, inventano e progettano luoghi nei quali coltivare la passione della memoria e la circolazione delle idee femministe. Verso la metà del decennio, l’esigenza di collegare tutte queste esperienze e di trovare una lingua comune porta alla costituzione del Coordinamento nazionale dei Centri, al convegno di Siena, nel 1986, e ad alcune importanti iniziative sul lessico femminista e sulla sua trasmissibilità, curate dal Centro di Studi storici sul Movimento di liberazione delle Donna in Italia di Milano e dal Centro di documentazione delle donne di Bologna, iniziative che continuano oggi nella costruzione di un thesaurus linguistico e di reti telematiche di genere.

Agli inizi degli anni Ottanta i manifesti in mostra indicano due importanti snodi nel dibattito interno al Movimento: il lesbofemminismo che elabora attraverso alcuni convegni la sua autonomia e i suoi legami col femminismo eterosessuale; il femminismo antinucleare e pacifista, che prende le mosse dall’installazione di missili atomici in alcune basi Nato in Europa. In quegli anni, un’attenta lettura del quadro politico internazionale svelava un nesso tra i due movimenti. Le donne che da Seneca Falls, da Greenham Common e da mezzo mondo giunsero a Comiso l’8 marzo 1983, chiamate dalle donne del Campo “La ragnatela” e dal Coordinamento per l’Autodeterminazione della Donna di Catania erano in gran parte legate ad altre donne da una riflessione radicale sul patriarcato e la sua violenza, una riflessione che coinvolgeva fino in fondo le loro scelte di vita. Da questa radicalità nasceva lo stile peculiare delle loro azioni non violente, che innovavano la tradizione pacifista con modi, gesti, oggetti, legati alla vita quotidiana, una ritualità che collocava l’amore tra donne in un continuum di amore materno, di cui la madre terra era la prima destinataria. Fu in queste azioni che per la prima volta si manifestò quell’intreccio tra femminismo, pacifismo, ecologismo che avrebbe occupato la riflessione degli anni a venire. Infatti, sotto la spinta del disastro di Chernobyl e dell’aggravarsi delle tensioni internazionali, molte donne del Movimento si troveranno a ragionare sulla scienza e il suo limite e ad allargare la riflessione ai “luoghi difficili” e alle donne migranti componendo pazientemente quel mosaico transculturale del femminismo internazionale che tende un filo politico riconoscibile tra ieri e oggi, da Comiso a Pechino, come la mostra fa vedere chiaramente.

Gi anni Ottanta sono pure gli anni di una svolta periodizzante nel Movimento, i cui esiti sono ancora in corso: il passaggio dal cosiddetto “femminismo storico” al pensiero della differenza sessuale, ovvero da una riflessione a partire dalla sessualità psichicamente e storicamente determinata dall’esperienza delle donne e dai modelli di genere, alla rilevanza simbolica della libertà femminile che si pone come trascendenza rispetto al piano della condizione storica delle donne. Anche le pratiche politiche mutano. Esauritasi l’autocoscienza e definite in qualche misura le vicende legislative del decennio precedente, l’attenzione si sposta sulle relazioni duali tra donne, che riproducono l’asimmetria del rapporto madre-figlia da cui scaturirebbe una disparità di valore. Tale disparità va riconosciuta alla madre simbolica, la figura cardine di questo pensiero, colei che incarna il passaggio dalla maternità reale alla trascendenza del materno. Questa svolta, prodotta da un numero di “Sottosopra” del 1983, il cosiddetto “Sottosopra verde”, imprime al Movimento il segno di una opzione filosofica, abbandonando il territorio della storia in quanto specchio inguardabile dell’oppressione reale e della miseria simbolica delle donne, una sorta di “storiofobia” che induce questa parte del Movimento a recidere il nesso tra democrazia e libertà femminile.

Eppure, negli stessi anni, il bisogno di mettere insieme memoria e storia si fa sempre più forte in altre aree del Movimento. C’è, insieme, l’urgenza di un bilancio politico e il timore di perdere il filo di un percorso di identità, di mancare ancora una volta quella continuità della presenza delle donne nella storia che ha coinciso con la scomparsa dall’orizzonte storiografico: avremmo questa volta evitato di ingrottarci nelle viscere di una memoria senza date, trasmessa oralmente di madre in figlia, o avremmo invece messo mano ad una rilettura critica di questa storia generale senza generi “monca, irreale, storta”, come l’aveva definita Virginia Woolf? Queste domande attraversano gli anni Ottanta per intero: “Memoria”, rivista di storia delle donne, nasce nel 1981, la Società Italiana delle Storiche nel 1989.

Il 1987 è un anno periodizzante rispetto a tali domande e la tensione tra filosofia e storia produce eventi importanti. La Libreria delle Donne di Milano pubblica Non credere di avere dei diritti che rilegge la storia del femminismo milanese e di alcuni nodi del dibattito nazionale alla luce dell’approdo filosofico nel pensiero della differenza. Nello stesso anno, sempre a Milano, esce “Lapis”, rivista diretta da Lea Melandri, nella quale continua la riflessione del femminismo storico sulla corporeità, il luogo delle origini, la dualità maschio-femmina, quel territorio negato dalla storia da cui tuttavia la storia non può prescindere, un territorio preistorico in senso stretto, che inquieta non poco la generazione di storiche femministe che comincia a fare i conti con la neutralità del proprio mestiere.

Il tema dei diritti politici, del suffragio, della libertà delle donne nel contesto della democrazia occidentale, riempie i volumi e le sale dei convegni. La questione ancora aperta è quella della cittadinanza femminile incompiuta, laddove invece la presenza delle donne nella storia sociale e il loro imprevedibile rapporto col potere era stato messo a fuoco nel convegno Ragnatele di rapporti, svoltosi a Bologna nel 1986.

Ciò che emerge dalla ventata di “storiofilia” che attraversa molti luoghi del movimento politico delle donne in questo decennio è la consapevolezza, ormai provata dai nuovi studi delle storiche femministe, che la storia è il luogo dell’esperienza femminile, sia come soglia di resistenza i modelli imposti, sia come autonoma elaborazione di sé: esaurito il modello dell’oppressione, alle storiche non pare convincente quello fondato su una libertà femminile sradicata dai contesti che l’hanno resa pensabile. Infine, ancora nel 1987, vede la luce “Il foglio del paese delle donne”, diretto da Marina Pivetta, testata che eredita la ricchezza della pubblicistica femminista degli anni Settanta e ancor oggi strumento prezioso di confronto e scambio tra le molte esperienze del movimento politico delle donne, del quale testimonia la durata, la diffusione, i mutamenti.

Se c’è un tema che si presta a fare da filo conduttore alla storia politica delle donne nell’Italia Repubblicana questo è certamente il tema della maternità e del materno. Dalle lotte dell’Udi per la tutela delle lavoratrici madri, al nesso sessualità-maternità ricomposto nel femminismo, al recupero di un’idea di maternità sociale nella battaglia per l’autodeterminazione, all’ordine simbolico della madre prefigurato dal pensiero della differenza. E ancora ai nostri giorni, e non da poco, la questione bioetica sembra evocare fantasmi di espropriazione dell’esperienza materna delle donne da parte dell’ossessione tecnologica di un’area consistente del patriarcato contemporaneo, affetta da “invidia di Giove”, il sogno maschile della generazione cerebrale. I manifesti parlano di un impegno delle donne volto a fronteggiare questa minaccia, ma la questione è squisitamente politica, collocata come già quella dell’aborto, sul nodo potere-sapere, da snodare in “scienza e coscienza” delle donne.

Tra gli anni Ottanta e Novanta, il rapporto tra donne e conoscenza si estende a tutti i territori del sapere. La mostra documenta diffusamente il moltiplicarsi delle iniziative su cinema, teatro, letteratura, architettura, musica, religiosità e quant’altro. Il pensiero delle donne, che la riflessione filosofica elabora come pensiero della differenza, nel misurarsi con la tradizione culturale sperimenta nuovi metodi e percorsi, sì da prefigurare una nozione plurale del sapere nata all’impatto con la soggettività femminile, i saperi della differenza, per l’appunto. Più tardi, soprattutto a partire dall’approvazione della legge 125 sulle azioni positive, nuovo denaro si rende disponibile per dare alle donne la più desiderabile delle opportunità: tempo per sé, per stare insieme, riflettere, divertirsi anche. A cura dei Comitati pari Opportunità istituiti in numerosi Enti pubblici, fioriscono iniziative utili e dilettevoli, che estendono a molte il privilegio che era stato di poche, come quello goduto, a partire dagli anni Ottanta, dalle donne che hanno frequentato i corsi del Centro Virginia Woolf di Roma e della Libera Università delle Donne di Milano. Accade infatti spesso che occasioni pensate come aggiornamento di conoscenze si trasformino in occasioni di formazione, in cui le risorse e le aspirazioni di ciascuna emergono proprio in virtù dell’idea stessa di una opportunità offerta.

1989-1996 La Società Italiana delle Storiche. I saperi e le opportunità.

Alla fine degli anni Ottanta, la riflessione femminista sulla storia porta alla fondazione della Società Italiana delle Storiche, nel 1989, dopo due anni di dibattito appassionato sul nome e sul come di un luogo di ricerca e di trasmissione della storia che intende partire dalla valorizzazione della soggettività femminile. Due seminari inaugurano questa riflessione, il primo nel 1989, a Fiesole, sulla soggettività, il secondo nel 1991 a Orvieto, sulla ricerca didattica. La forza di questo progetto culturale e politico si misura ogni anno alla Certosa di Pontignano, nella Scuola Estiva di Storia delle Donne organizzata dalla Società in collaborazione con l’Università di Siena. Uno sguardo ai sette manifesti della Scuola dice forse più di quanto i temi dei corsi non abbiano negli anni suggerito: donne in gruppo, nel 1990, poi, via via, un alternarsi di individue autonome, riflessive, di relazioni amichevoli, di chiacchiere e danze, di infanzie intelligenti, una storia mossa che integra la serietà dei temi (famiglie, lavori, autorappresentazioni, corpi, diritto/diritti; politica, sesso/genere, ecc.) segnalando il clima sui generis delle lezioni pontignanesi.

Il clima culturale degli anni Novanta, così come i manifesti lo rappresentano, vede le donne occupare con agio tutti gli spazi della conoscenza..Continuano a uscire i periodici storici, “Dwf”, giunta alla sua quarta serie, e “Lapis”, nasce “Via Dogana”, chiude “Memoria”. Tuttavia, la presenza politica delle donne sembra perdere incisività, come se l’occupazione femminile degli spazi del sapere avesse coinciso paradossalmente con una perdita di visibilità politica, accontentandoci quasi, e ancora una volta, di una nostra compatibilità con gli assetti esistenti. L’impossibilità di tradurre la consapevolezza in cittadinanza compiuta è a mio avviso il nodo che il movimento politico delle donne dovrà sciogliere in questo fine millennio: preoccupazioni, ma anche speranze, che questa mostra può e vuole sostenere.

Qualche nota in margine, infine. La mostra suggerisce la presenza di un Movimento policentrico, sin dalle sue origini. Accanto ad alcuni punti forti, al Nord e al Sud (Bologna, Firenze, Milano, Venezia, Padova, Roma, Napoli, Catania) si intravede una trama periferica fitta (Acireale, Giarre, Varese, L’Aquila, Comiso, Siena, Cosenza, Ascoli Piceno, Alessandria, Aosta, Novara, Bolzano e altre), sì da far pensare che quello che oggi viene chiamato “femminismo diffuso”, intendendo con ciò quei comportamenti femminili inconsapevolmente segnati dal femminismo, possa essere ascritto anche alla geopolitica del Movimento, alla sua presenza diffusa sul territorio, oltre che al contagio politico e massmediale.

Sarebbe pertanto interessante indagare il rapporto, se c’è, tra aree storiche dell’emancipazionismo femminile e durata del messaggio femminista, riscontrabile nei comportamenti delle nuove generazioni. Ovvero quanto, su questa durata e su questi mutamenti, abbia inciso la civiltà istituzionale consolidata di alcune città italiane (Bologna, Siena, Firenze, Ferrara, ma anche Milano), sia nel migliorare la qualità della vita delle donne, sia nel recepire e rafforzare proposte e progetti nati nel cuore del Movimento Femminista: penso soprattutto ai Centri Donna, così come all’uso degli spazi urbani e ai servizi. Quanto tutto ciò ha da vedere con la praticabilità della libertà femminile? Quanto con la sua visibilità? La questione si colloca ancora una volta tra storia e politica.

Leggere attraverso i manifesti qui raccolti continuità e discontinuità nell’autorappresentazione del Movimento Femminista e del più ampio Movimento politico delle donne, significa fare i conti con alcune categorie storiografiche classiche, ben sapendo tuttavia che nella storia delle donne durata può significare omologazione, e mutamento può significare scomparsa. Questa nostra storia infatti, nei suoi intrecci, incontri, separazioni, corre questi rischi. Per tale ragione occorre molta cura nel dipanarne le fonti, per restituire ad esse la responsabilità di un pezzo di storia delle donne; individuarle e ordinarle evitando di cancellare le diversità dei soggetti che le hanno prodotte, anche quando l’unità dell’obbiettivo politico da raggiungere lascerebbe intendere una omogeneità delle origini e dei percorsi di ciascun gruppo. Ciò è vero soprattutto per i manifesti, in cui la forza dell’immagine e del messaggio tende ad assorbire le diversità delle firme che li sottoscrivono. Questa precisazione, che vale per ogni immagine collettivamente proposta, è indispensabile quando a riempire lo spazio mostrato sul muro è il corpo femminile. Dolente, lacerato, urlante, provocatorio negli anni Settanta, diventa colto, ironico, sicuro di sé negli anni Ottanta, sfumato, accennato, “artistico” negli anni Novanta, nei quali si frantuma fino a scomparire. Mi chiedo, e sono preoccupata: come mai assistiamo alla riprivatizzazione della sessualità femminile nel momento stesso in cui il corpo delle donne diventa “luogo pubblico”? Riguardarsi, quindi, per ricordare a noi stesse che “il personale è politico”, è il merito estremo di questa mostra.

Infine, il manifesto di copertina.

Ero a Rende, in Calabria, nell’inverno del ’93, invitata dalle donne del Centro “Nosside” di Cosenza per una mostra e un incontro (79). Ricordo un mattino freddo e limpido, il raggio di un sole basso, rosato, contro una grata della città vecchia, un’immagine da non perdere. Mi accorgo anni dopo che essa “manifesta” anche altro: quale intreccio è possibile tra io e noi, tra libertà individuale e responsabilità delle relazioni, tra soggetto e contesto, nella storia del movimento politico delle donne?

Catania, febbraio 1997

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